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Neapolis parla davvero: miti, magia e Solstizio nel Napoli Fringe Festival

Sono quarant’anni che girovago nel centro storico di Napoli. Strade, vicoli, chiese, pietre consumate dal tempo e dalla distrazione. Da sempre mi accompagna una domanda, semplice e ostinata: se ’sti ppréte putesseno parlá, cosa direbbero di noi, della città, del modo in cui l’attraversiamo?

Tornare il 21 dicembre nella Chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli ha avuto il sapore di una soglia attraversata due volte. Lì dove, anni fa, ero io ad aprire la chiesa come volontario di Legambiente, tra riunioni, iniziative civiche e visioni collettive, sono rientrato nel giorno in cui Napoli celebra convenzionalmente i suoi 2500 anni. Una data che coincide con il Solstizio d’inverno, la notte più lunga dell’anno e, insieme, promessa di rinascita.

Da questa stratificazione di tempo, memoria e domande nasce l’idea e l’incipit dello spettacolo. Un’intuizione affidata poi alla regia di Guido Liotti, capace di tradurre con tanta passione e altrettanta fatica una visione narrativa in forma scenica, corpo, voce e spazio. Così prende vita Neapolis: se ’sti ppréte putesseno parlá, inserito nel Napoli Fringe Festival diretto da Laura Valente.

Il viaggio comincia con Ulisse, archetipo dell’erranza. Il canto delle Sirene avvolge lo spazio senza dominarlo, come se Napoli avesse imparato a difendersi dalle seduzioni facili. Subito dopo appare Enea, figura di fondazione e futuro, simbolo della doppia anima della città: luogo di partenze e approdi, di ferite e trasformazioni.

Dal mito del viaggio si scivola nel mistero. Il Tempio di Diana, oggi Chiesa della Pietrasanta, si anima delle Janare, figure femminili sospese tra sacro e leggenda. Nella coreografia di Ambra Marcozzi, il femminile ancestrale danza nella notte ma anche per tutto lo spettacolo, evocando riti antichi e cicli naturali. Napoli si rivela città iniziatica, dove il tempo non è linea ma cerchio.

La vocazione mediterranea prende forma con i Dioscuri, il loro tempio era dove oggi c’è la Basilica di San Paolo Maggiore. Castore e Polluce, protettori dei naviganti, gemelli divisi tra luce e oscurità, Olimpo e Ade. Accanto a loro la Canefora di San Gregorio Armeno ricorda Demetra e Persefone che riportano al centro la ciclicità della terra, della fertilità e della rinascita. Tutto risuona come un’eco ancestrale, amplificata dal Solstizio: tempo di sospensione e rigenerazione.

Affiora poi la radice egizia: Iside e il dio Nilo, custode simbolico di Napoli da venticinque secoli, ancora oggi presente nel cuore della città. In questo pantheon entra il Principe di Sansevero, alchimista e Gran Maestro massone, che dialoga con Iside mettendo a confronto pudicizia e potenza del mito, scienza e magia, corpo e conoscenza. Napoli si conferma crocevia di saperi e contaminazioni.

Un passaggio centrale è dedicato a Virgilio, poeta e mago. Il Cavallo di bronzo che guariva gli animali e l’uovo nascosto sotto Castel dell’Ovo diventano simboli di una città capace di trasformare mito e storia in racconto vivente, mai definitivamente concluso.

A guidare questo attraversamento è Parthenope, voce antica e coscienza della città, capace di tenere insieme passato e presente, leggenda e contemporaneità. Scena dopo scena, emerge con chiarezza che lo spettacolo nasce per custodire l’identità profonda di Napoli, per evitare che i suoi miti e la sua memoria scivolino nell’indifferenza.

E mentre le azioni si susseguono, tornano le pietre. I monumenti antichi, se potessero parlare, sarebbero forse anche un po’ arrabbiati: spesso trascurati, ridotti a sfondo per cibo e souvenir, temono l’olio che scivola sui gradini delle loro storie. Eppure continuano a parlare, in silenzio, aspettando qualcuno disposto ad ascoltare davvero.

Il Napoli Fringe Festival, rassegna multidisciplinare che trasforma la città in palcoscenico diffuso, è il contesto ideale per questo dialogo tra mito e presente.

Le musiche originali di Giovanna Panza, con Antonella Maisto, Gianluca Rovinello all’arpa e Pasquale Termini al violoncello, accompagnano il viaggio. Il lavoro audio di Ciro Amitrano, le luci e il video mapping di Daniele Rosselli e Diego Quagliarella, insieme all’assistenza organizzativa e progettuale di Marinella Di Martino e Gabriella Sarno, rendono l’esperienza immersiva e rituale.

Il cast corale – Silvana Marino, Amedeo Ambrosino, Ciro D’Errico, Roberto Cervone, Livia Berté, Roberta Cacace, Anna Ragucci, Nunzia Loffredo, Valentina Di Francia, Elena Francesca Tarallo – dà corpo e voce ai miti con rigore e intensità.
I testi originali, frutto di un lavoro collettivo, sono stati curati da Daniela Marra, Guido Liotti, Carmine Maturo, Nunzia Loffredo, Livia Berté, Valentina Di Francia e Roberto Cervone.

Uscendo dalla chiesa, ho sentito il cuore pieno di gratitudine. Per Guido Liotti, regista capace di dare forma scenica a un’idea originaria, e per tutte le artiste, gli artisti, le tecniche e i tecnici che hanno reso possibile questo racconto. Ho visto Napoli parlare davvero, tra mito, storia, magia e pietre silenziose, e ho capito che custodirne l’identità non è solo un privilegio, ma una responsabilità.

Quella sera, nel cuore del Solstizio d’inverno, Napoli ha preso la parola.
Ora tocca a noi continuare ad ascoltarla, perché identità, leggende, miti e storia della città non cadano nell’oblio.

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